Videogiochi troppo lunghi: il tempo è il vero boss finale per i giocatori?

Una riflessione sul dilagare di titoli da centinaia di ore, le difficoltà dei giocatori moderni e il dibattito aperto da figure chiave del settore.

Nell’universo dell’intrattenimento digitale, una domanda serpeggia con sempre maggiore insistenza tra appassionati e addetti ai lavori: i videogiochi sono diventati troppo lunghi? La questione non è banale e tocca nervi scoperti dell’industria, dal costo di produzione al rapporto tra prezzo e valore percepito.

A gettare benzina sul fuoco è stata una figura di spicco come Shawn Layden, ex presidente di Sony Interactive Entertainment Worldwide Studios, che con una dichiarazione provocatoria ha cristallizzato il dilemma moderno: “Non ho bisogno che tu passi 100 ore sul mio gioco. Voglio che tu lo finisca”. La sua preferenza per un’esperienza più contenuta, magari di 15-20 ore, che il giocatore possa portare a termine, si scontra con la tendenza dominante di kolossal open-world che richiedono un investimento di tempo quasi paragonabile a un secondo lavoro.

Si delinea così un paradosso: il pubblico chiede giochi sempre più vasti per giustificare una spesa che sfiora spesso i 70-80 euro, ma poi, stretto tra impegni lavorativi e familiari, raramente ha il tempo materiale per esplorarne ogni anfratto e, soprattutto, per vederne i titoli di coda.

Il paradosso del “value for money” e il dramma dei finali mai visti

L’equazione “più lungo è, più vale” è profondamente radicata nella mente del consumatore. Di fronte a un’etichetta del prezzo sempre più alta, la longevità diventa uno dei principali metri di giudizio per un acquisto. Tuttavia, i dati raccontano una storia diversa, che dà ampiamente ragione alla tesi di Layden.

Analizzando le statistiche aggregate da portali specializzati, emerge un quadro impietoso sul completion rate (il tasso di completamento) di alcuni dei titoli più acclamati e venduti degli ultimi anni. Opere mastodontiche come The Witcher 3: Wild Hunt, ad esempio, vedono solo il 30.8% dei giocatori arrivare alla fine della storia principale. La percentuale è simile per il capolavoro western Red Dead Redemption 2, che si ferma al 31.7%, e scende addirittura al 28.4% per il più recente Assassin’s Creed Valhalla.

Questo significa che circa sette giocatori su dieci abbandonano l’avventura prima di averne vissuto l’epilogo. Il dato è drammatico se si considera l’enorme sforzo produttivo che si cela dietro questi progetti, con budget che possono superare i 200 milioni di dollari. Interi capitoli della storia, colpi di scena e complesse sequenze finali, frutto di anni di lavoro da parte di centinaia di sviluppatori, vengono di fatto fruiti solo da una ristretta minoranza del pubblico pagante.

In questo contesto si inserisce una riflessione più ampia legata ai ritmi della società contemporanea e al generale abbassamento della soglia di attenzione. La costante richiesta di stimoli e la frammentazione del tempo libero hanno favorito l’ascesa di esperienze di intrattenimento immediate. Ne sono un esempio i cosiddetti quick games, pensati per un consumo rapido e sessioni di gioco che durano manciate di minuti.

Il loro funzionamento si basa su meccaniche semplici e una gratificazione istantanea, intercettando perfettamente l’esigenza di chi cerca uno svago veloce senza l’impegno richiesto da una narrazione complessa e prolungata. Sebbene rappresentino un segmento diverso del mercato, la loro popolarità evidenzia una tendenza chiara: una fetta crescente di pubblico desidera forme di intrattenimento più concise e rispettose dei propri limitati ritagli di tempo, un’esigenza che l’industria dei titoli tripla A non può più ignorare.

Riempitivi o contenuti? La sfida di bilanciare quantità e qualità

Tornando ai grandi kolossal videoludici, la rincorsa alla longevità a tutti i costi ha generato un effetto collaterale spesso criticato: l’abuso di filler content. Per raggiungere le fatidiche cento e più ore di gioco, gli sviluppatori sono spesso costretti a riempire le loro immense mappe di mondo con attività secondarie ripetitive, centinaia di collezionabili fini a sé stessi e missioni secondarie poco ispirate.

Questi contenuti “riempitivi” rischiano di annacquare l’esperienza, diluendo il ritmo della narrazione principale e portando il giocatore a uno stato di “player fatigue”, ovvero una stanchezza che culmina frequentemente nell’abbandono del gioco. Ancora una volta, la soluzione a questo gigantismo non arriva necessariamente dai grandi publisher, ma dal vivace mercato indie.

Titoli come Stray o Inside hanno dimostrato con forza che non serve una durata esagerata per raccontare una storia memorabile ed emozionante. Queste esperienze, più brevi e concentrate, offrono un’avventura curata in ogni dettaglio, che rispetta l’intelligenza e, soprattutto, il tempo del giocatore. Questa filosofia si sposa perfettamente con l’idea di Shawn Layden: giochi più snelli non solo sarebbero più accessibili per un pubblico più vasto, ma potrebbero anche rivelarsi economicamente più sostenibili, permettendo agli sviluppatori di osare di più senza rincorrere budget faraonici.

In definitiva, non esiste una risposta univoca alla domanda sulla durata ideale di un videogioco. Il conflitto tra la giustificazione del prezzo attraverso la quantità e la realtà di un pubblico con sempre meno tempo a disposizione è destinato a continuare. La vera ricchezza del medium videoludico, oggi, risiede probabilmente nella sua straordinaria diversità. La coesistenza di giochi-servizio pensati per durare anni, avventure narrative da 15-20 ore, perle indie da poche ore e persino quick games per una pausa caffè, offre a ogni tipo di giocatore l’esperienza più adatta alle proprie esigenze.

Il futuro potrebbe vedere un’ulteriore segmentazione del mercato, con una nuova e crescente valorizzazione di quelle avventure che, anziché chiedere al giocatore di adattare la propria vita al gioco, riescono ad adattarsi elegantemente alla vita del giocatore.

Scritto da: CoPlaNet.it Editor

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